Nell’era della comunicazione istantanea e dei social media, l’ossessione per le apparenze è diventata un tema centrale nella nostra società. La bellezza esteriore, i “like” e l’approvazione altrui sembrano aver preso il sopravvento sulle relazioni autentiche e sulla genuinità dei sentimenti. Questo è il fulcro di “La forma delle cose”, un’opera del drammaturgo americano Neil LaBute, che affronta con coraggio e lucidità le dinamiche che si celano dietro le maschere che indossiamo. La regia di Marta Cortellazzo Wiel, con la traduzione di Masolino D’Amico, porta in scena questo dramma in prima nazionale al Teatro Gobetti di Torino, il 7 gennaio.
LaBute, nella sua scrittura, riesce a cogliere l’essenza di un problema che sembra solo aumentare di rilevanza: “Siamo bombardati da storie di quindici secondi”, afferma la regista. In un mondo dove l’apparenza è tutto, ci troviamo costretti a mostrarci sempre felici e realizzati, mentre, in realtà, le nostre fragilità e insicurezze rimangono celate. LaBute invita il pubblico a riflettere su quanto ci sentiamo liberi di esprimere le nostre vulnerabilità, di mettere a nudo le nostre paure e i nostri fallimenti. In un contesto sociale dove il successo è misurato attraverso il numero di follower o il “mi piace” su un post, il dramma mette in discussione le fondamenta su cui costruiamo le nostre identità.
La forma delle cose è il primo di tre atti che compongono la “Trilogia della bellezza”, scritta tra il 2001 e il 2008. Quando il testo è stato pubblicato, i social network iniziavano a radicarsi nelle nostre vite. Oggi, a distanza di vent’anni, il messaggio di LaBute risuona ancor più forte. La regista sottolinea come il testo si riveli sorprendentemente attuale, riflettendo una società che sacrifica l’autenticità in nome di slogan e apparenze. Il titolo stesso suggerisce l’ossessione per l’estetica, un tema che permea l’opera e che invita a esaminare il significato più profondo delle nostre scelte e del nostro modo di presentarci agli altri.
La trama si sviluppa in un museo di una cittadina di provincia, dove avviene l’incontro tra Adam, un giovane guardiano di sala, ed Evelyn, una studentessa d’arte dal fascino magnetico. La loro interazione dà il via a una serie di eventi che metteranno in discussione le certezze costruite nel tempo. Adam ed Evelyn si trovano a dover affrontare non solo le loro fragilità, ma anche le conseguenze delle loro scelte. Questo confronto diventa un viaggio interiore che obbliga entrambi a riconsiderare il concetto di bellezza, non solo come un valore estetico, ma come un elemento intrinsecamente legato alla vulnerabilità umana.
La scenografia, curata da Anna Varaldo, crea un ambiente astratto e minimalista, in cui l’unico elemento tangibile è un pianoforte e alcuni specchi. Questa scelta visiva serve a riflettere il tema della percezione e dell’immagine di sé, accentuando il contrasto tra l’apparenza e la realtà. Gli attori, Christian Di Filippo, Celeste Gugliandolo, Marcello Spinetta e Beatrice Vecchione, sono chiamati a interpretare personaggi complessi, che lottano con il peso delle aspettative e delle norme sociali, mentre cercano di trovare un equilibrio tra ciò che mostrano e ciò che sentono.
LaBute, con il suo stile incisivo e provocatorio, ci spinge a considerare quanto spesso ci troviamo prigionieri delle nostre stesse creazioni. La società contemporanea ci ha insegnato a valorizzare l’apparenza, a vivere in una costante ricerca di approvazione esterna, dimenticando che la vera bellezza risiede nell’autenticità. La forma delle cose, quindi, diventa un manifesto per la sincerità e un invito a guardare oltre le superfici, verso ciò che realmente conta: la nostra umanità condivisa e le relazioni autentiche che possiamo costruire.
In questo senso, l’opera di LaBute non è solo un dramma, ma un riflesso delle nostre vite, una chiamata a riconoscere le maschere che indossiamo e a osare mostrare il nostro vero io. La prima nazionale di “La forma delle cose” al Teatro Gobetti rappresenta un’opportunità preziosa per confrontarci con queste tematiche, per riflettere su come ci presentiamo al mondo e su quali sono le vere forme delle cose che ci circondano.
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