Fascismo a Palermo: le radici di una classe dirigente controversa - ©ANSA Photo
Il fascismo a Palermo rappresenta un capitolo complesso e intrigante della storia italiana, spesso frainteso e ridotto a semplici stereotipi di violenza e intimidazione. In realtà, il regime mussoliniano si è insediato nella città attraverso un processo di formazione e reclutamento di ceti dirigenti, amministratori e politici, molti dei quali erano professionisti affermati. Il libro “Fascisti a Palermo” di Matteo Di Figlia, storico dell’Università di Palermo, offre un’analisi approfondita di questo fenomeno, svelando le dinamiche che hanno permesso al fascismo di radicarsi nel tessuto sociale della città.
Di Figlia esplora i meccanismi di selezione dei dirigenti fascisti a Palermo, evidenziando come il regime sia riuscito a costruire un apparato di potere che ha coinvolto diverse personalità influenti. Tra queste, spicca il filosofo Giovanni Gentile, considerato l’ideologo del fascismo, la cui influenza si estese ben oltre i confini della Sicilia. Gentile ha fornito le basi teoriche per il regime e ha sostenuto un’educazione che riflettesse i valori fascisti.
Un altro personaggio di grande rilevanza è Telesio Interlandi, fervente sostenitore del regime e direttore di importanti pubblicazioni come “Tevere” e “La difesa della razza”. Quest’ultima rivista è nota per aver promosso il pensiero razzista, contribuendo alla diffusione dell’ideologia fascista attraverso i mass media.
Un altro esponente significativo è Alfredo Cucco, un oculista che ha rappresentato l’“uomo nuovo” del fascismo siciliano. Membro del direttorio del partito, la sua carriera politica ha subito un arresto a causa di un’indagine su una gestione controversa dei fondi. Tuttavia, nel 1943, durante la Repubblica di Salò, tornò a ricoprire ruoli di responsabilità e fu eletto deputato del Movimento Sociale Italiano (MSI) nel nuovo parlamento repubblicano.
La presenza siciliana nel regime fascista era particolarmente evidente nella fase iniziale del governo di Mussolini. Tuttavia, a partire dal 1935, si è assistito a un progressivo ridimensionamento della rappresentanza siciliana nei vertici del fascismo, con figure come Antonio Albertini, Ruggero Romano e Guido Jung che uscirono di scena, segnando un cambiamento nell’assetto di potere.
Uno degli aspetti più controversi del fascismo in Sicilia è stata la sua relazione con la mafia. Cesare Mori, noto come il “prefetto di ferro”, ha intrapreso una dura lotta contro la criminalità organizzata, cercando di smantellare i legami tra mafia e istituzioni locali. Tuttavia, la strategia del regime si è evoluta nel tempo: inizialmente si cercava di isolare la mafia, ma successivamente i vertici del partito hanno dovuto interagire con i gruppi mafiosi, portando a una cooptazione di alcuni esponenti mafiosi nel notabilato locale.
La cooptazione e la propaganda hanno permesso al fascismo di costruire un consenso tra le élite locali, creando un sistema che ha permesso a molti ceti dirigenti di prosperare sotto il regime. Questo approccio ha reso il regime più resistente e ha contribuito a una certa legittimazione della sua presenza nella società italiana, specialmente in Sicilia.
In sintesi, il lavoro di Matteo Di Figlia offre una visione articolata su come il fascismo sia riuscito a infiltrarsi nei vari strati della società siciliana. Utilizzando una combinazione di forza, cooptazione e intellettualismo, il regime ha costruito un sistema di potere duraturo. La sua ricerca non solo illumina un periodo critico della storia italiana, ma invita a riflettere sulle complessità della relazione tra fascismo e élite locali, un tema che continua a essere rilevante nel dibattito storico contemporaneo.
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