Carlo Cecchi svela il fascino del santo bevitore di Joseph Roth - ©ANSA Photo
Una giovane donna si trova in un caffè parigino, immersa nella lettura de “La leggenda del santo bevitore” di Joseph Roth, un’opera pubblicata postuma nel 1939. Questo racconto, ricco di significato e simbolismo, ha recentemente preso vita sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma, dove è stato rappresentato fino a domenica scorsa, e si appresta ora a proseguire il suo viaggio a Rovereto il 5 novembre, prima di intraprendere una tournée in altre città italiane.
Mentre la ragazza legge, Joseph Roth appare davanti a lei, intento a scrivere il suo ultimo libro. In un gioco di riflessi narrativi, Roth legge la sua opera al barista, il quale si trasforma nel protagonista del racconto: Andreas, un clochard che incarna la figura del “buon bevitore”. Andreas vive sotto i ponti della Senna, un destino segnato dalla libertà e dalla solitudine, dopo aver scontato una pena detentiva. La sua vita è segnata dalla presenza di Caroline, l’unica donna che riesce a ricordare tra le molte che ha amato.
Durante una notte, mentre si aggira lungo le rive del fiume, Andreas incontra un elegante signore, la cui generosità ricorda quella del milionario di “Luci della città” di Charlie Chaplin. Questo misterioso benefattore gli regala 200 franchi con la condizione di restituirli un giorno alla giovane Santa Teresa di Lisieux, venerata nella chiesa di Santa Maria di Batignoles. Questo gesto diventa l’innesco di un racconto intriso di ironia e malinconia, dove Andreas si imbarca in un viaggio per mantenere la sua promessa.
Nel corso dei giorni, la vita di Andreas si snoda attraverso una serie di incontri e coincidenze fortunate. Ogni volta che si avvicina al suo obiettivo, un nuovo evento lo distoglie dal cammino verso la chiesa. Tra i momenti chiave della sua storia ci sono:
Ogni incontro rappresenta una nuova opportunità, ma la solitudine e l’inevitabile caduta nel mondo dell’alcol sono sempre in agguato. Il vino e l’acquavite diventano simboli di una vita che oscilla tra speranza e disillusione.
Il personaggio di Andreas è ricco di sfumature, rappresentando la fragilità umana e il desiderio di essere salvati, ma anche la forza di un’onore che resiste nonostante tutto. Questa complessità è alla base di uno spettacolo che suscita attese e riflessioni, non solo per la qualità del testo di Roth, ma anche per l’interpretazione di Carlo Cecchi, che ha recentemente compiuto 86 anni. Cecchi, noto per la sua capacità di esplorare le difficoltà dell’esistenza, sembra in questo caso distaccarsi dal personaggio, utilizzando un tono ironico e quasi cinico che limita la profondità dell’interpretazione.
La regia di Andrée Ruth Shammah, insieme alla scenografia di Gianmaurizio Fercioni, crea un’atmosfera evocativa, ma non sempre riesce a catturare l’essenza del personaggio di Andreas. L’andamento della narrazione si mantiene su un registro affabulatorio, dove la voce di Cecchi si alterna in un ritmo che pare mancare di un reale sviluppo narrativo.
Nonostante le scelte musicali azzeccate che accompagnano la rappresentazione, la performance di Cecchi rischia di apparire come una lettura piuttosto che un’interpretazione teatrale vivida e coinvolgente. L’attore, pur con una voce inconfondibile e un carisma indiscutibile, non riesce a dare vita al dramma umano di Andreas, che rimane intrappolato nella dimensione del racconto piuttosto che emergere come un personaggio tridimensionale.
Il fascino di “La leggenda del santo bevitore” risiede nella sua capacità di toccare corde profonde dell’animo umano, affrontando temi come la redenzione, la solitudine e la ricerca di un significato in un’esistenza segnata dall’alcol e dalla precarietà. La figura di Andreas, con la sua umanità e le sue debolezze, invita a una riflessione sulle scelte di vita e sulle circostanze che ci portano a essere ciò che siamo.
Il lavoro di Cecchi, per quanto ricco di potenziale, sembra in questo caso limitato da un approccio che non riesce a rendere giustizia alla complessità del personaggio e alla profondità del testo di Roth. La scommessa di dare vita a un’opera così carica di significato è notevole, eppure il risultato finale solleva interrogativi su come si possa meglio esplorare e incarnare la fragilità e la resilienza di un’anima in cerca di salvezza.
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